Dettaglio Legge Regionale
Titolo | Riordino e coordinamento della normativa edilizia e urbanistica regionale con le disposizioni urgenti in materia di semplificazione urbanistica ed edilizia di cui al decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2024, n. 105 |
---|---|
Regione | Sardegna |
Estremi | Legge n. 18 del 17-06-2025 |
Bur | n. 35 del 19-06-2025 |
Settore | Politiche infrastrutturali |
Delibera C.d.M. | 04-08-2025 / Impugnata |
La legge regionale, che detta le disposizioni sul riordino e il coordinamento della normativa edilizia e urbanistica regionale con le disposizioni urgenti in materia di semplificazione urbanistica ed edilizia di cui al decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, convertito con modificazioni in legge 24 luglio 2024, n. 105, presenta profili di illegittimità costituzionale con riferimento alle disposizioni contenute negli articoli 2, 4, 6, 7, 12, 14, 15, 18, 19, 27, comma 1, lettera a), 27, comma 2 e 28, 29, comma 1, lettere c) e d) , che, per i motivi di seguito specificati, risultano eccedere dalle competenze statutarie riconosciute alla Regione Sardegna dallo Statuto Speciale di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3), andando a violare l’art. 117, comma secondo, lettere a), h) , l), m) r) e s) della Costituzione, ponendosi altresì in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento dell’amministrazione di cui agli articoli 3 e 97 Cost, nonché con gli articoli 9, 32, 42 della Costituzione Preliminarmente, è opportuno ricordare che la Regione Autonoma della Sardegna, in forza dell'articolo 3, lettera f) e articolo 6 dello Statuto Speciale (L. Cost. n. 3/1948), e in coerenza con l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, detiene una competenza legislativa esclusiva in materia di "urbanistica e opere pubbliche". Tale attribuzione, seppur ampia, non può tuttavia tradursi in una piena ed incondizionata autonomia normativa. La giurisprudenza costituzionale ha infatti costantemente ribadito come anche le Regioni a statuto speciale siano vincolate al rispetto di principi e materie trasversali, tra cui spiccano le riforme economico-sociali di interesse nazionale, l'ordinamento civile - ambito che include le fondamentali norme di diritto privato inerenti alla proprietà, ai contratti e ai rapporti obbligatori, la cui disciplina non può essere disomogenea su base regionale - e la determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali. L'analisi delle norme regionali in oggetto evidenzia come le stesse, nell'introdurre deroghe o previsioni, specifiche, incidano su tali limiti inderogabili, violando principi di coerenza ordinamentale e di tutela dei diritti fondamentali che, per loro natura, richiedono un'uniforme disciplina sul territorio nazionale, anche a fronte di autonomie regionali rafforzate. Ciò premesso, risultano censurabili, in particolare, le seguenti disposizioni della legge regionale in argomento: L’articolo 2, comma 1, rubricato “Definizione di interventi edilizi, stato legittimo dell'immobile, attività edilizia e caratteristiche del titolo abilitativo” inserisce nella legge regionale n. 23 del 1985 un articolo aggiuntivo 2-bis, rubricato "Definizione degli interventi edilizi". Il citato articolo 2-bis, al comma 1, opera un rinvio all'articolo 3 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (di seguito, il "TUE"), per la definizione degli interventi edilizi. Purtuttavia, al comma 3, sancisce che "la realizzazione di nuovo volume in una costruzione esistente è considerata ristrutturazione edilizia se avviene all'interno della sagoma esistente e nuova costruzione in caso contrario". Al riguardo, in via preliminare appare opportuno ricordare che dal combinato disposto delle disposizioni di cui all'articolo 3 e 10 del TUE, si ricava che la realizzazione di volumi "fuori sagoma" rientra in ogni caso tra gli interventi di nuova costruzione e, pertanto, richiede sempre il permesso di costruire ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera a), del TUE; di converso, la realizzazione di volumi "entro sagoma" non costituisce una tipologia di intervento qualificabile, in ogni caso, quale intervento di ristrutturazione edilizia. Sul punto, la giurisprudenza ha fornito indicazioni utili per comprendere fino a quale misura può essere effettuato un aumento di volumetria in ristrutturazione pesante, senza per ciò stesso ricadere nel regime proprio della "nuova costruzione", che non è assoggettabile a SCIA alternativa ma soltanto a permesso di costruire. In particolare, è stato autorevolmente affermato che "le "modifiche volumetriche "previste dall'art. 10 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 per le attività di ristrutturazione edilizia (assentibili, a scelta dell'interessato, o con permesso di costruire o con DIA) devono consistere in diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero in incrementi volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili aumenti di volumetria, perché altrimenti verrebbe meno la linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione." (cfr., ex multis, Cass. n. 47046/2007, ribadito, più di recente," da Cass. n. 43530/2019). Nello stesso senso, è stato ulteriormente precisato che "la ristrutturazione edilizia si caratterizza anche per la previsione di possibili incrementi volumetrici, ma ciò rende necessaria una lettura della norma nel senso che l'aumento di cubatura deve essere senz'altro contenuto, in modo da mantenere netta la differenza con gli interventi di nuova costruzione."(cfr., ex multis, Cass. n. 38611/2019). Alla luce di quanto sopra, la disposizione in esame, nel qualificare l'ampliamento di volume "entro sagoma" quale intervento di ristrutturazione edilizia, introduce un automatismo in palese contrasto con i su richiamati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale i confini tra "ristrutturazione edilizia" e "nuovo intervento" devono essere rinvenuti nella consistenza dell'intervento e, quindi, nel suo impatto in termini di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio interessato. Per di più, la disposizione, incidendo sull'individuazione delle categorie di intervento edilizio, si risolve anche in una potenziale modifica del regime amministrativo dei titoli abilitativi. La giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto che le norme del TUE concernenti i titoli abilitativi sono norme fondamentali di riforma economico-sociale, in quanto di queste condividono le caratteristiche salienti, che vanno individuate nel contenuto riformatore e nell'attinenza a settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza (cfr. Corte costituzionale, Sent. n. 24 del 2022). Esse, d'altro canto, rispondono complessivamente ad un interesse unitario ed esigono, pertanto, un'attuazione su tutto il territorio nazionale (cfr. Corte costituzionale, Sent. n. 198 del 2018). Inoltre, la potenziale individuazione, da parte della norma regionale, di un titolo edilizio differente rispetto a quello previsto nel TUE potrebbe implicare trasformazioni del territorio così significative da incidere, in maniera sproporzionata e irragionevole, sui livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Sotto altro profilo, il medesimo articolo 2-bis, al comma 5, consente l'esecuzione di interventi che prevedano l'integrale demolizione di edifici e la loro ricostruzione, nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti, qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell'area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra edifici, tra pareti finestrate, dalle strade e dai confini. In tema di demolizione e ricostruzione di edifici nelle zone omogenee A o comunque in zone di particolare pregio storico o artistico, l'articolo 2-bis, comma 1-ter, del TUE ha posto un'ulteriore condizione perché la ricostruzione possa avvenire nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti: e cioè che l'intervento sia contemplato "esclusivamente nell'ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale”. La ratio della previsione risiede nell'esigenza di assicurare una maggior tutela al valore d'insieme delle aree soggette allo specifico regime delle zone A e dei centri storici, escludendo che all'interno di esse gli interventi di cui al medesimo comma 1-ter dell'articolo 2-bis possano essere direttamente realizzati dagli interessati e stabilendo invece che essi debbano inserirsi nella più generale considerazione del contesto di riferimento, che solo un piano particolareggiato può assicurare. In tal senso, la disposizione si pone in contrasto con i principi fondamentali di tutela dell'ordinato assetto del territorio nonché di tutela del patrimonio storico e artistico di cui all'articolo 117,secondo comma, lettera s), Cost, rilevando come la stessa si traduca in una sostanziale spoliazione a danno delle Amministrazioni preposte alla pianificazione del territorio, rispetto alle quali il TUE fa salve "le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela", e quindi la facoltà che tali Amministrazioni possano dettare prescrizioni diverse e anche più rigorose per l'effettuazione degli interventi in discorso, tenuto conto dello specifico contesto preso in considerazione. Sotto tale ultimo aspetto, la disposizione in commento si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento dell'amministrazione di cui agli articoli 3 e 97 Cost. Il medesimo articolo 2, comma 1, della legge regionale in esame inserisce nella legge regionale n. 23 del 1985 un ulteriore articolo 2-ter, il quale, al comma 2, prevede che negli immobili oggetto di condono edilizio sono consentite, senza incremento volumetrico o di superficie coperta, unicamente opere di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia non comportanti demolizione e ricostruzione con differente sagoma. La disposizione non risulta coerente con quanto previsto dall'articolo 9-bis, comma 1-bis, del TUE, da ultimo novellato ad opera del decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2024, n. 105, il quale stabilisce che lo stato legittimo dell'immobile o dell'unità immobiliare è, tra l'altro, quello stabilito dal titolo che ne "ha legittimato" la costruzione, ovverosia anche quello rilasciato a seguito di condono. Tale impostazione si pone in linea con quanto argomentato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 119 del 2024, nella quale è stato affermato che "il condono ha per effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell'abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia". Conseguentemente, "Deve, pertanto, escludersi la legittimità di una disposizione che comporti per il proprietario, ancorché non espropriato della titolarità, uno svuotamento del contenuto del suo diritto nel modo più irrimediabile e definitivo, e cioè con graduale degrado e perimento del bene (costruzione) ed una progressiva inutilizzabilità e distruzione dell'edificio, in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura (conforme a licenze, concessioni e autorizzazioni ancorché in sanatoria). Si tratta in ogni caso di edifici legittimamente esistenti e ovviamente regolarmente assentiti (fin dall'origine o con valido condono in sanatoria non oggetto di successivi interventi repressivi o di annullamento) dal punto di vista urbanistico o sotto il profilo di speciali vincoli (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 529 del 1995, ribadita da Consiglio di Stato, sentenza n. 5358 del 2016). In definitiva, la disposizione che pone un "vincolo" ostativo verso l'esecuzione di determinati interventi su immobile o unità immobiliare condonati, potendo, infatti, il condono costituire, al pari dell'accertamento di conformità, valido presupposto per l'esecuzione di qualsiasi ulteriore intervento edilizio, si pone in contrasto con l'articolo 42 Cost, in ragione del pregiudizio arrecato al privato, nonché dei principi fondamentali di riforma economico sociale posti dallo Stato di cui alle sopra citate disposizioni statali di riferimento. L’articolo 4, rubricato “Integrazioni all'articolo 3-bis della legge regionale n. 23 del 1985 in materia di incentivazione degli interventi di riuso del patrimonio edilizio dismesso e per l'efficientamento energetico” nell'inserire due nuovi commi all'articolo 3-bis della legge regionale n. 23 del 1985, prevede che, sia in caso di interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti alla data del 24 maggio 2024, sia in caso di edifici di nuova costruzione o ampliamento di quelli esistenti, sono ammesse, a certe condizioni, deroghe alle normative regionali o regolamenti edilizi comunali, anche con riferimento alle "distanze minime di protezione del nastro statale ferroviario...". Le due disposizioni (comma 3-bis e comma 3-ter) limitano le deroghe al "rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile". Le due disposizioni si pongono in contrasto con la normativa statale nella parte in cui non limitano altresì le deroghe alle distanze minime previste dall'articolo 49 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753, recante "Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto". Infatti, la deroga al rispetto delle distanze legali dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia (fissata in metri 30 dall'articolo 49 del D.P.R. n. 753 del 1980) può essere autorizzata soltanto, previa autorizzazione di R.F.I., quando "... la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le particolari circostanze locali lo consentano" (art. 60 del D.P.R. n. 753 del 1980). Da quanto sopra illustrato, si evince chiaramente che il combinato disposto di cui agli articoli 49 e 60 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753, delinea uno strumento di tutela della sicurezza che, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. h), della Costituzione è materia ascritta alla competenza legislativa statale in modo esclusivo. La giurisprudenza in materia ha chiarito l'inderogabilità (nei limiti di quanto disposto dall'articolo 60 del D.P.R. n. 753 del 1980) delle distanze minime da rispettare dalle linee ferroviarie per le costruzioni. In generale, per le ferrovie, la distanza minima è di 30 metri dalla rotaia più vicina. Queste distanze sono stabilite per garantire la sicurezza e la tutela dell’infrastruttura ferroviaria. Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 753 del 1980 disciplina le fasce di rispetto ferroviario, fissando la distanza minima di 30 metri per le ferrovie, ma ammettendo deroghe. Queste fasce di rispetto, istituite anche per tutelare la sicurezza delle zone adiacenti all'infrastruttura, hanno lo scopo di prevenire danni dovuti a rumori, vibrazioni, scuotimenti, ecc. La giurisprudenza, nel tempo, ha consolidato questi principi, stabilendo che la distanza minima di 30 metri non è meramente indicativa, ma rappresenta un limite inderogabile, salvo che il richiedente l'autorizzazione a costruire a distanza inferiore non dimostri l'assenza di rischi concreti legati all'edificazione. Peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l'onere di provare l'insussistenza di rischi concreti spetta a chi chiede la deroga alla distanza minima. Dunque, è ormai pacifico ritenere che la distanza di 30 metri dalle ferrovie sia un parametro fondamentale per le costruzioni, con possibilità di deroga solo a fronte di precise e documentate garanzie di sicurezza. Pertanto, una disposizione che ammetta deroghe a questa distanza senza porre il limite previsto dagli articoli 49 e 60-del citato D.P.R. n. 753 del 1980 determina un'evidente violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di sicurezza, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione. Lo stesso articolo 4, nella parte in cui modifica l'articolo. 3-ter della legge regionale n. 23 del 1985, introduce l'esclusione dal computo dei volumi e dall'altezza massima dell'edificio, degli spessori di murature esterne, degli elementi di chiusura superiori e inferiori che racchiudono il volume riscaldato delle superfici e dei rapporti di copertura nei limiti ivi indicati, per interventi di efficientamento energetico anche nel caso di edifici nuovi, mentre per effetto dell'abrogazione del comma 6 dell'articolo 14 del decreto legislativo 4 luglio 2014, n. 102, avvenuta con il decreto legislativo n. 73 del 2020, tali esclusioni sono possibili solo per interventi su edifici esistenti. La giurisprudenza costituzionale è intervenuta più volte sulla legittimità di leggi regionali che prevedono deroghe agli spessori delle murature, in particolare in relazione al Decreto Ministeriale n. 1444/68. La Corte ha chiarito che le regioni possono introdurre deroghe a tali norme, ma solo se riguardano i limiti stabiliti dalla normativa locale. Le leggi regionali che prevedono deroghe agli spessori delle murature, e più in generale alle distanze tra edifici, sono legittime, purché tali deroghe si riferiscano ai limiti stabiliti dalla normativa locale (piani urbanistici e regolamenti edilizi) e non a quelli previsti dalla normativa statale. Le deroghe possono riguardare i limiti stabiliti dai regolamenti edilizi e dai piani urbanistici, ma non i parametri minimi stabiliti dalla normativa statale. In sostanza, la Corte Costituzionale ha bilanciato l'autonomia delle regioni nella pianificazione urbanistica con la necessità di rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla normativa statale e di tutelare il paesaggio. Ebbene, con il decreto legislativo 14 luglio 2020, n. 73, l'articolo 13 ha abrogato il comma 6 dell'articolo 14 del decreto legislativo 4 luglio 2014, n. 102, con ciò definitivamente escludendo che le deroghe ammesse per promuovere l'efficienza energetica possano applicarsi agli edifici nuovi. Pertanto, l'articolo 4, comma 1, della legge in esame, che, come detto, modifica l'articolo. 3-ter della legge regionale n. 23 del 1985, nel non distinguere tra edifici nuovi e edifici esistenti ai fini dell'applicabilità della deroga di cui all’articolo 3-ter della legge regionale n. 23 del 1985, non tiene conto della necessità di bilanciare l'autonomia, anche speciale, delle regioni nella pianificazione urbanistica con la necessità di rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla normativa statale. Quanto sopra, anche in contrasto con il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost, per inosservanza dell'obbligo di pianificazione concertata e condivisa, necessaria per un ordinato sviluppo urbanistico e per individuare le trasformazioni compatibili con le prescrizioni statali del codice dei beni culturali e del paesaggio. Peraltro, la possibilità di deroga ai parametri interposti edilizi, nel caso di specie, costituisce invasione della sfera di competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile di cui alla lettera l) del secondo comma dell'art. 117 Cost. L’articolo 6 sostituisce integralmente l'articolo 4 della legge regionale n. 23 del 1985, riguardante le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al novellato comma 2 di detto articolo 4, che sono considerati in totale difformità dal titolo abilitativo, l'esecuzione di volumi edilizi o la realizzazione di superfici coperte oltre il 20 per cento dei limiti indicati nel progetto, nonché le modifiche superiori al 50 per cento delle distanze da fabbricati, dai confini del lotto e dalle strade indicate nel progetto, o riduzioni di qualunque entità che determinano distanze inferiori ai minimi previsti dalle vigenti disposizioni. Inoltre, al medesimo comma 2, la disposizione qualifica, in ogni caso, quale totale difformità la modifica della localizzazione dell'edificio all'interno del lotto urbanistico di pertinenza quando non vi è alcuna sovrapposizione della sagoma a terra dell'edificio autorizzato e di quello realizzato. Preliminarmente si evidenzia che le disposizioni in commento non risultano coerenti rispetto all'impianto prefigurato dal TUE. Invero, l'articolo 31 del TUE, al comma 1, definisce le casistiche di totale difformità dal permesso di costruire in termini esclusivamente qualitativi, facendovi rientrare gli interventi che, sotto vari profili, hanno come effetto quello di comportare la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso da quello assentito, ovvero di un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza e autonomamente utilizzabile. Sul punto, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 32, comma 1, del TUE, alla legislazione regionale è esclusivamente attribuita la competenza a stabilire, entro i parametri specificamente indicati dalle lettere dalla a) alla e), quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto dei limiti posti al riguardo dalla legislazione statale e, in particolare, dal menzionato articolo 31 del TUE. Orbene, la disposizione in esame, nel determinare una collocazione delle diverse ipotesi di violazione edilizia all'interno delle categorie della totale difformità e della variazione essenziale potenzialmente differente rispetto a quella risultante dall'applicazione della normativa statale rilevante (articoli 31 e 32 del TUE), viola le stesse norme che costituiscono principi fondamentali di riforma-economico sociale, incidendo sull'individuazione delle fattispecie di reato, determinando una sostanziale modifica dei profili penalistici connessi alla realizzazione di interventi in assenza o in difformità totale del titolo edilizio, in violazione dunque anche della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento penale di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost. Per altro verso, la disposizione, nell’incidere sull'individuazione della species di violazione edilizia di volta in volta rilevante, consente la regolarizzazione di difformità edilizie sulla base di titoli abilitativi diversi o di procedure diverse da quelli indicati dalle norme di principio statali, intaccando le scelte di principio operate dal legislatore statale sul versante della sanatoria. Infatti, mentre gli interventi costituenti variazione essenziale sono assoggettati alla procedura di sanatoria prevista dall'articolo 36-bis del TUE, quelli realizzati in totale difformità dal permesso di costruire sono soggetti al regime, più rigido, di cui all'articolo 36 del TUE. La legislazione regionale non è in alcun modo abilitata a subordinare la sussistenza della condizione di "totale difformità" mediante l'indicazione di limiti quantitativi, che potrebbero avere, quale effetto, non solo quello di circoscrivere la portata della condotta abusiva, nonché i suoi effetti, anche sul versante della sanzione penale, ma anche quello di ledere le scelte di principio sul versante della sanatoria, in relazione all’an, al quando e al quantum. La disposizione regionale in esame risulta pertanto in contrasto con disposizioni di principio che costituiscono norme di riforma economico sociale, andando altresì a violare la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento penale di cui all’articolo 117, secondo comma lettera l) della Costituzione L’articolo 7, riguardante le variazioni essenziali e le parziali difformità, modifica l'articolo 5 della legge regionale n. 23 del 1985, il quale prevede, al comma 1 -bis di nuova introduzione, che per parziali difformità rispetto al progetto approvato si intendono le variazioni che non raggiungono i limiti fissati per le variazioni essenziali e, nel caso di modifiche della localizzazione dell'edificio all'interno del lotto urbanistico di pertinenza determinata a seguito di rotazione su qualunque asse o traslazione, le variazioni superiori al 50 per cento. Al pari della fattispecie della "totale difformità", anche per la parziale difformità non si rinvengono all'interno dell'articolo 34 del TUE criteri quantitativi (e neppure qualitativi) per la definizione delle casistiche rientranti nella categoria. Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la parziale difformità si configura quando "le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, n. 1484 del 2017). In altre parole, la parziale difformità si configura come una difformità minore e residuale rispetto alla totale difformità e alla variazione essenziale, sicché i suoi confini sono individuabili tra il limite delle tolleranze edilizie (limite inferiore) e quello delle variazioni essenziali (limite superiore). Al riguardo, si richiamano le argomentazioni inerenti ai vizi di costituzionalità sopra svolte in relazione al precedente articolo 6, in quanto la legislazione regionale non sia in alcun modo abilitata a subordinare la sussistenza della condizione di "parziale difformità "mediante l'indicazione di limiti quantitativi, che potrebbero avere, quale effetto, parimenti quello di circoscrivere la portata della condotta abusiva, nonché i suoi effetti, anche sul versante della sanzione penale. Anche in relazione all’articolo 7 in esame si evidenzia dunque il contrasto con disposizioni di principio che costituiscono norme di riforma economico sociale, andando altresì a violare la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento penale di cui all’articolo 117, secondo comma lettera l) della Costituzione L’articolo 12, riguardante i requisiti edilizi minimi igienico-sanitari sostituisce l'articolo 7-quater della legge regionale n. 23 del 1985, in materia di agibilità degli immobili e deroghe ai requisiti igienico sanitari. In particolare, il menzionato articolo 7-quater, al comma 1, esclude l'applicabilità, nell'ambito dell'ordinamento regionale, dei commi da 5-bis a 5-quater dell'articolo 24 del TUE, e, pertanto, allo stato, sono mantenute inalterate le misure minime di agibilità per i monolocali nei limiti fissati dalla normativa nazionale previgente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2024, n. 105, che ha introdotto significative novità sul tema dei cd. "micro-appartamenti". In particolare, la disposizione in esame, non recepisce le nuove disposizioni statali sulla superficie minima degli alloggi. Preliminarmente, appare opportuno ricordare che i commi da 5-bis a 5-quater dell'articolo 24 del TUE, introdotti dal citato decreto-legge n. 69 del 2024, nelle more dell'adozione del decreto di cui all'articolo 20, comma 1-bis, del TUE da parte del Ministero della salute volto a definire i requisiti igienico-sanitari di carattere prestazionale degli edifici, hanno autorizzato il progettista, ai fini del rilascio del certificato di agibilità, ad asseverare la conformità del progetto ai parametri igienico-sanitari in due nuove ipotesi, concernenti le altezze e la superficie interna. Nel dettaglio, con riguardo alle altezze, il progettista è autorizzato ad asseverare il progetto nei locali aventi un'altezza minima interna inferiore a 2,70 metri, fino al limite massimo di 2,40 metri; mentre, con riguardo alla superficie degli alloggi mono stanza, il progettista viene autorizzato ad asseverare il progetto fino al limite massimo di 20 metri quadrati, in caso di alloggi abitati da una persona, oppure, se abitati da due persone, fino al limite massimo di 28 metri quadrati. Si prevede, in ogni caso, che il progettista potrà rendere l'asseverazione de qua qualora ricorra almeno una delle seguenti condizioni: (i) i locali siano situati in edifici sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie; (ii) sia contestualmente presentato un progetto che contenga soluzioni di ristrutturazione alternative atte a garantire, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio. La ratio di siffatta disciplina transitoria si rinviene nella necessità di fornire una risposta pragmatica alle mutate esigenze sociali ed economiche, nonché di adeguare la disciplina edilizia alle trasformazioni del contesto urbano, non pregiudicando al contempo l'effettiva sussistenza dei requisiti inderogabili di sicurezza, igiene e salubrità, degli edifici. La riduzione dell'altezza o della superficie minima degli alloggi mono stanza è stata subordinata dalla legislazione statale alla contestuale sussistenza di un progetto atto a garantire in ogni caso idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio. In tale ottica, le misure statali in commento sono orientate a fornire soluzioni abitative a una fascia consistente di popolazione di giovani lavoratori, studenti e famiglie monopersonali, consentendo loro di accedere a soluzioni abitative flessibili e a prezzi contenuti, e quindi di realizzare le proprie aspettative di vita e lavoro anche in contesti urbani dove il costo di un alloggio è proibitivo. Al contempo, tali misure rappresentano una risposta all'esigenza di valorizzare il patrimonio edilizio esistente, limitando il consumo di nuovo suolo e rivitalizzando aree urbane sottoutilizzate. L'articolo 12 risulta essere incostituzionale nella parte in cui non recepisce il disposto di cui ai menzionati commi 5-bis, 5-ter e 5-quater dell'articolo 24 del TUE. Sul punto, si evidenzia, infatti, che la materia relativa agli standard edilizi si configura quale livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, non potendosi ammettere — su aspetti di primario rilievo sociale ed economico — una tutela frammentaria e diversificata della disciplina dissettore. A ciò si aggiunga che, pur non recependo i commi 5-bis, 5-ter e 5-quater dell'articolo 24 del TUE, il medesimo articolo 7-quater, della legge regionale n. 23 del 1985, come novellato dalla legge in esame, ai commi 3 e 6, ammette, ai fini dell'agibilità, deroghe di carattere generalizzato ai rapporti aero-illuminanti di cui al decreto del Ministro della Sanità 5 luglio 1975, di attuazione degli articoli 218 e 221 del regio decreto n. 1265/1934, che stabilisce gli standard posti a presidio del diritto alla tutela della salute ex articolo 32 della Costituzione. In Particolare, mentre le ricordate disposizioni statali, da un lato, circoscrivono l'ambito di applicazione oggettivo del regime derogatorio (i.e. alloggi mono stanza) e, dall'altro, fissano limiti quantitativi precisamente individuati cui è subordinata l'asseverazione ai fini dell'agibilità (altezza e superficie minima), l'articolo 7-quater, ai commi 3 e 6, dispone una deroga ai rapporti aero-illuminanti suscettibile di trovare potenziale applicazione verso tutti gli immobili situati nel territorio regionale, potendosi la stessa applicare a tutti gli immobili "d) esistenti alla data di entrata in vigore del decreto ministeriale 5 luglio 1975; e) successivi alla data di entrata in vigore del decreto del Ministro della sanità 5 luglio 1975 e esistenti alla data del24 maggio 2024", e senza nemmeno fissare una misura minima. Tutto ciò considerato, l'articolo 7-quater, in parte qua reca disposizioni lesive dell'articolo 32 Costituzione, in quanto contrasta con i parametri interposti rappresentati dalle citate disposizioni del D.M. 5 luglio 1975, dirette a tutelare la salute e la sicurezza degli ambienti. Sul tema, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 119 del 2024, ha rammentato che le prescrizioni del D.M. 5 luglio 1975 sono vincolanti per la normativa regionale, in quanto, essendo "legate da un nesso evidente alla normativa primaria e chiamate a specificarne sul versante tecnico i precetti generali, [...] sono idonee a esprimere princìpi fondamentali" (cfr. anche sentenza Corte cost. n. 124 del 2021). Le prescrizioni riguardanti i parametri di aero illuminazione, al pari dell'altezza interna degli edifici, perseguono l'essenziale finalità di conformare l'attività edilizia e, in tale ambito, apprestano misure volte anche a garantire il diritto alla salute nel contesto dell'abitazione, spazio di importanza vitale nell'esistenza di ogni persona. Tali prescrizioni si configurano, pertanto, come princìpi fondamentali di riforma economico-sociale, vincolanti per la legislazione regionale. E proprio in quanto riconducibile alle norme fondamentali di riforma economico-sociale, vincola anche la potestà legislativa della Regione autonoma Sardegna. L’articolo 14 apporta modifiche all'articolo 11 della legge regionale n. 23 del 1985, in materia di categorie funzionali urbanisticamente rilevanti e destinazione d’uso, non recependo le novità introdotte dal decreto-legge n. 69 del 2024 all'articolo 23-ter del TUE, in particolare in punto di obblighi relativi all'assolvimento degli oneri urbanistici connessi al mutamento di destinazione d'uso delle singole unità immobiliari, tanto all'interno della stessa categoria funzionale (cd. mutamenti di destinazione d'uso urbanisticamente irrilevanti o orizzontali), quanto tra categorie funzionali diverse (cd. mutamenti urbanisticamente rilevanti o verticali). L’articolo 23-ter del TUE, come modificato dal decreto-legge n. 69 del 2024, ha inteso agevolare, mediante l'introduzione di semplificazioni sostanziali e procedurali, i mutamenti di destinazione d'uso, anche in caso di contestuale esecuzione di opere edilizie. Il citato articolo 23-ter, comma 1-bis, dispone che, nei casi di mutamento di destinazione d'uso orizzontale di singole unità immobiliari, non è dovuto il pagamento né degli oneri di urbanizzazione primaria né di quelli di urbanizzazione secondaria ove previsto dalla legislazione regionale. In tali ipotesi, infatti, l'equivalenza del carico urbanistico viene valutata a priori dalla legislazione statale e, pertanto, il mutamento d'uso non comporta la necessità di adeguare la dotazione esistente di aree per servizi pubblici o di uso pubblico o l'esecuzione di opere di urbanizzazione. Nel caso di mutamento di destinazione d'uso verticale relativo ad una singola unità immobiliare, il medesimo articolo 23-ter, al comma 1-quater, dispone che questo non è assoggettato all'obbligo di reperimento di ulteriori aree per servizi di interesse generale, al vincolo della dotazione minima obbligatoria di parcheggi, né al pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria, fermo restando il pagamento di quelli di urbanizzazione secondaria, ove previsto dalla legislazione regionale. La ratio della disposizione è rinvenibile nell'esigenza di introdurre una semplificazione per agevolare i cambi d'uso rilevanti per singole unità immobiliari, ad esclusione di quelle rurali, giustificata dalla circostanza che nelle zone A), B). e C) di cui all'articolo 2 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444), il mutamento avviene tendenzialmente in un contesto già urbanizzato, ove l'incremento del carico urbanistico si presume compensato o ridimensionato. A conferma di ciò, il legislatore statale ha ritenuto di non imporre la corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria, nella consapevolezza che il loro versamento si risolverebbe in una sostanziale duplicazione di costi a fronte dell'unicità dei servizi già predisposti nella zona interessata (e.g. strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, pubblica illuminazione). Il favor per la semplificazione e l'agevolazione del mutamento di destinazione d'uso espresso dal legislatore statale è altresì evidente laddove si consideri che, ai sensi dell'articolo 23-ter, commi 1-bis e 1-ter, tanto i mutamenti di destinazione d'uso orizzontali, quanto quelli verticali (nelle zone A), B) e C)), possono essere oggetto soltanto di "specifiche condizioni" da parte degli strumenti urbanistici comunali, in ogni caso sorrette da adeguata motivazione, in punto, per esempio, della necessità, valutata in concreto dall'amministrazione, di salvaguardare il decoro urbano. Il legislatore statale, al primo periodo del comma 3 dell'articolo 23- ter del TUE, ha stabilito che i principi discendenti dalle disposizioni dinanzi illustrate trovano in ogni caso applicazione diretta. Alla luce di quanto sopra, è di chiara evidenza come la disciplina di cui all'articolo 23-ter del TUE ponga principi fondamentali di riforma economico sociale, e si configuri, altresì, quale livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, non potendosi ammettere, su tale aspetto di primario rilievo, una tutela frammentaria e diversificata a livello territoriale. Pertanto, l'articolo 14 in esame risulta incostituzionale nella parte in cui non recepisce le semplificazioni concernenti il mutamento di destinazione d'uso introdotte dal citato articolo 23-ter del TUE. Conseguentemente, per analoghe ragioni, è censurabile anche l'articolo 18, il quale, nell'apportare modifiche all'articolo 15-quater della legge regionale n. 23 del 1985, prevede, tra l'altro, che, nelle modifiche di destinazione d'uso urbanisticamente non rilevanti, fermo il rispetto degli spazi per parcheggi previsti da specifiche normative di settore, lo strumento urbanistico comunale determina gli spazi per parcheggio eventualmente ritenuti necessari". La disposizione risulta non coerente con quanto previsto dall'articolo 23-ter, comma 1-bis, del TUE, che, nell'ottica di agevolare i mutamenti di destinazione d'uso ivi previsti, esonera l'interessato dal reperimento delle aree per servizi di interesse generale, nonché dal vincolo della dotazione minima di parcheggi. Le citate disposizioni statali violate, come detto finalizzate a principi di semplificazione, costituiscono norme di riforma economico sociale che, come tali, vincolano anche la potestà legislativa della Regione Sardegna. L’articolo 15, modifica l'articolo 14 della legge regionale n. 23 del 1985, in materia di opere eseguite in assenza di SCIA o in difformità da essa. In particolare, il citato articolo 14, al comma 2, continua a prevedere, in relazione all'ipotesi di opere eseguite in assenza di SCIA o in difformità da essa, una forma di sanatoria condizionata al pagamento di una sanzione pecuniaria di euro 500 e al pagamento degli oneri di costruzione ove dovuti, secondo un meccanismo, procedurale simile a quello già previsto dall'articolo 37, comma 4, del TUE, abrogato dal decreto-legge n. 69 del 2024. A seguito del predetto decreto-legge, l'accertamento di conformità per le opere eseguite in assenza o in totale difformità dalla SCIA è regolato dall'articolo 36- bis del TUE, che disciplina altresì l'accertamento di conformità per gli interventi eseguiti in parziale difformità ovvero costituenti variazione essenziale al permesso di costruire. Pertanto, non viene recepito il nuovo impianto prefigurato dal Testo unico, continuandosi a prevedere, nei fatti, un regime di sanatoria analogo a quello previsto dal previgente articolo 37, comma 4, del TUE. In tal senso, la disposizione in esame risulta essere illegittima, in quanto, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., ex multis, sentenza 21/04/2021, n. 77), in tema di sanatorie edilizie, sono di esclusiva competenza statale le scelte di principio, in particolare quelle relative all'an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo in sanatoria e a quali condizioni, che operano alla stregua di principi fondamentali di riforma economico-sociale. L’articolo 19, sostituisce l'articolo 16 della legge regionale n. 23 del 1985 e prevede una fattispecie di accertamento di conformità, per opere eseguite in assenza di titolo o in difformità totale, che contempla la possibilità di eliminazione degli elementi incongrui e volti alla modifica dell'esistente per ricondurre l'abuso a conformità e quindi a renderlo sanabile, non previsto dall'articolo 36 del TUE, che invece, a tal fine, richiede la doppia conformità dell'abuso eseguito alla disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento della realizzazione dell'abuso sia al momento della presentazione della domanda. La giurisprudenza amministrativa e penale hanno pacificamente e costantemente affermato che l'abuso che si intende sanare deve essere quello rilevato e non quello a cui si può pervenire per renderlo sanabile attraverso demolizioni o modificazioni, ciò anche in relazione agli effetti estintivi che la sanatoria di cui all'articolo 36 determina sul reato commesso (articolo 45 TUE). Diverso invece è il caso previsto dal successivo articolo 20, che nel caso di difformità parziali e variazioni essenziali, alle condizioni ‘ivi espresse, consente l'eliminazione di opere per rendere conforme l'abuso eseguito, come ammesso dall' articolo 36-bis del TUE. L'articolo 36, nel delimitare presupposti e limiti della sanatoria, solo "formale", per il caso di assenza o totale difformità dal permesso di costruire, è riconducibile alle norme fondamentali di riforma economico-sociale e vincola anche la potestà legislativa della Regione autonoma Sardegna. In tal senso, la disposizione risulta illegittima, in quanto, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., ex multis, sentenza 21/04/2021, n. 77), in tema di sanatorie edilizie, sono di esclusiva competenza statale le scelte di principio, in particolare quelle relative all'an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo in sanatoria e a quali condizioni, che operano alla stregua di principi fondamentali di riforma economico-sociale. Peraltro, considerato l'effetto estintivo della sanatoria sul reato, la disposizione è suscettibile di incidere sull'individuazione delle fattispecie, e determina una sostanziale modifica dei profili penalistici connessi alla realizzazione di interventi in assenza o in difformità totale del titolo edilizio, in violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento penale di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost. L’articolo 27 modifica l'articolo 19 della legge regionale n. 45 del 1989 e prevede che il piano urbanistico comunale debba estendersi, oltre che all'intero territorio comunale, anche alle “acque costiere di cui all'articolo 54 del decreto legislativo n. 152 del2006, immediatamente prospicienti la battigia marina, alle quali, in assenza di normativa specifica, si applicherebbe la “disciplina prevista per le aree a terra". Al riguardo, l'articolo 54 del decreto legislativo n. 152 del 2006 definisce le acque costiere come "le acque superficiali situate all'interno rispetto a una retta immaginaria distante, in ogni suo punto, un miglio nautico sul lato esterno dal punto più vicino della linea di base che serve da riferimento per definire il limite delle acque territoriali, e che si estendono eventualmente fino al limite esterno delle acque di transizione. Dunque, la disposizione prevede che il piano urbanistico comunale debba necessariamente estendersi al largo, sino ad un miglio nautico dalla linea di base di cui all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1977, n. 816, recante adesione alla convenzione sul mare territoriale e la zona contigua. Preliminarmente, si rappresenta che non è data alle regioni la possibilità di legiferare e/o adottare provvedimenti amministrativi che esplicano i propri effetti oltre i limiti della giurisdizione amministrativa, sulla considerazione secondo cui i confini dovrebbero arrestarsi sulla linea costiera. In proposito si evidenzia che: a)precedenti giurisprudenziali affermano che il mare non fa parte del territorio comunale e non vi è alcuna norma espressa che autorizzi ad includere nel territorio comunale le zone d'acqua del mare territoriale prospicienti la linea di costa, che delimita il territorio comunale; b) il mare territoriale è zona distinta rispetto al territorio nazionale in quanto l'articolo 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 afferma che "la sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio... ad una fascia adiacente di mare, denominata mare territoriale" e che, secondo il successivo comma 3, tale sovranità "si esercita alle condizioni della presente Convenzione e delle altre norme del diritto internazionale"; II fatto che, in diritto internazionale, si riconosca allo Stato costiero l'esercizio della sovranità sul mare territoriale non significa che il medesimo se ne possa appropriare e considerarlo parte del "territorio" nazionale, in virtù del principio della libertà dei mari. Ciò è dimostrato dal fatto che sul mare territoriale lo Stato costiero, ai sensi della citata convenzione, non può opporsi, ad esempio, al passaggio inoffensivo di navi straniere (articolo 17 della convenzione); c) La delega alle regioni di funzioni in materia di demanio marittimo operata con i pertinenti provvedimenti normativi non comporta affatto un ampliamento dei limiti amministrativi di regioni e comuni, né una cessione della sovranità dello Stato sul mare territoriale. A dimostrazione del fatto che la delega alle regioni non può comportare un ampliamento dei loro limiti amministrativi, la disposizione interferisce con la predetta sovranità statale e con le competenze statali in materia di demanio marittimo e portuale, incidendo indirettamente sull'assetto ordinamentale statale in tema di uso, tutela e gestione dei beni pubblici costieri. Peraltro, la norma coinvolge ambiti riconducibili alla pianificazione degli spazi marittimi di cui al decreto legislativo 17 ottobre 2016, n. 201 (Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro perla pianificazione dello spaziò marittimo) e, per quanto concerne le concessioni demaniali, a quelle ancora di competenza statale, tra cui, in via esemplificativa, le concessioni per l'approvvigionamento di fonti energetiche. Pur riconoscendo che molte concessioni demaniali marittime rientrano oggi-nella competenza degli enti locali, permane la riserva statale su alcune tipologie strategiche, nonché sulle concessioni rilasciate all'interno delle aree di giurisdizione delle Autorità di sistema portuale, che avrebbero meritato un'espressa esclusione dall'ambito applicativo della disposizione regionale in esame. Peraltro, in tema di porti, l'articolo 5, comma 3-bis, della legge n. 84 del 1994 stabilisce che "Nei porti di cui al comma 3, ne quali non è istituita l'Autorità di sistema portuale, il piano regolatore è adottato e approvato dalla regione di pertinenza o, ove istituita, dall'Autorità di sistema portuale regionale, previa intesa con il comune o i comuni interessati, ciascuno per il proprio ambito di competenza, nel rispetto delle normative vigenti e delle proprie norme regolamentari. Sono fatte salve, altresì, le disposizioni legislative regionali vigenti in materia di pianificazione dei porti di interesse regionale". Dunque, come si vede, nei porti ove non è istituita l'Autorità di sistema portuale, per la potestà regolatoria in capo a regioni e comuni si è resa necessaria un'espressa attribuzione della legislazione statale, non essendo sufficiente una generica attribuzione di competenza nella materia de qua derivante dagli ordinari principi costituzionali di ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. Sotto altro profilo, si rileva che la disposizione non contempla meccanismi di raccordo procedimentale o forme di leale collaborazione con lo Stato, contravvenendo ai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di competenze interferenti. La Corte costituzionale ha infatti affermato costantemente (cfr. sentenze n. 157 del 2017, n. 113 del 2015, n. 180 del 2011) che le Regioni non possono incidere, nemmeno in via indiretta, sul regime giuridico dei beni appartenenti al demanio marittimo, la cui disciplina deve essere ricondotta a un interesse unitario nazionale. Ulteriori profili di illegittimità emergono in relazione alle competenze esclusive statali in materia di tutela della dominicalità del demanio marittimo, che si esplicano, tra l'altro, nei procedimenti di delimitazione (art. 32 cod. nav.), ampliamento (art. 33), consegna ad altre amministrazioni (art. 34) e sdemanializzazione (art. 35) del demanio marittimo, oltre che nella gestione della sua consistenza e destinazione funzionale. La possibilità che disposizioni urbanistiche comunali si estendano, ope legis, a porzioni di mare adiacenti alla battigia finisce per interferire con tali prerogative. In considerazione di quanto sopra esposto, la disposizione regionale in argomento, introducendo unilateralmente una disciplina estensiva delle previsioni urbanistiche comunali a porzioni di mare territoriale, presenta profili di contrasto con l'articolo 117, secondo comma, lettere a), l), m) e s), della Costituzione. Lo stesso Statuto della Regione Sardegna, all'articolo 14, stabilisce che la "Regione, nell'ambito del suo territorio, succede nei beni e diritti patrimoniali dello Stato di natura immobiliare e in quelli demaniali, escluso il demanio marittimo", con ciò non facendo minimamente cenno alle acque costiere (territoriali), implicitamente escluse persino dal dubbio se facciano parte o meno delle circoscrizioni regionali o comunali, con ciò non ritenendosi neppure necessario che si dimostri la violazione, pur avvenuta, di norme fondamentali di riforma economico-sociale. Tanto premesso, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione lo Stato ha competenza esclusiva in materia di ordinamento civile (comma 2, lett.l) nonché in materia di porti e aeroporti civili e militari di interesse nazionale e internazionale (comma 2, lett. r). , In tale contesto, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che la disciplina del demanio marittimo - ivi comprese le modalità di acquisizione, utilizzo e concessione - rientra nella materia dell'ordinamento civile ed è, pertanto, di competenza esclusiva dello Stato. In particolare, nella sentenza n. 94/2019, la Corte, citando una lunga serie di precedenti, ha affermato che la disciplina del demanio marittimo (e ancor più quella delle acque territoriali, "costituisce espressione della potestà legislativa esclusiva dello Stato nella regolazione degli aspetti dominicali del demanio marittimo, in quanto rientranti nella materia dell'ordinamento civile". Tale contesto normativo e giurisprudenziale depone indiscutibilmente per l’incostituzionalità della norma regionale, per violazione dei citati molteplici parametri costituzionali. Sotto altro e ulteriore profilo, la norma contenuta nell’articolo 27, al comma 2, si pone in contrasto con l’articolo 142, comma 2, del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che disciplina le fattispecie esenti dalle tutele prescritte dal comma 1 del medesimo articolo, ed in particolare con la lettera i) posta a presidio delle “zone umide incluse nell'elenco previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448”, con cui è stato dato recepimento alla Convenzione di Ramsar del 2 febbraio 1971, relativa alla tutela delle zone umide di importanza internazionale. Infatti, la disciplina delle zone umide regionali deve essere sottoposta a copianificazione tra Stato e Regione, come previsto dall’articolo 135, comma 1, ultimo periodo, del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, secondo il quale “L'elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all'articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143. In particolare, la lettera d) del comma 1 dell’art. 143, cui si riferisce l’art. 135 quando impone le materie di copianificazione, prevede che l’elaborazione del Piano comprenda almeno la “eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini dell'articolo 134, comma 1, lettera c), loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d'uso, a termini dell'articolo 138, comma 1”. Al riguardo, è d’uopo precisare che i beni facenti parte dell’Assetto Ambientale regionale, elencati dall’articolo 17 delle NTA del PPR, sono stati individuati dalla Regione ai sensi dell’articolo 143, comma 1, lett. i), del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, vigente al momento dell’approvazione (8 settembre 2006) e pubblicazione ed entrata in vigore (9 settembre 2006) del Piano paesaggistico regionale. In quel tempo, il D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 non prevedeva il principio della pianificazione paesaggistica congiunta obbligatoria, che è stato introdotto solo con il D. lgs. 26 marzo 2008, n. 63, recante “Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio”. Il D lgs. 26 marzo 2008, n. 63, entrato in vigore il 24 aprile 2008, ha completamente riscritto, tra gli altri, gli articoli 135 e 143 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, facendo confluire la lett. i), dell’articolo 143, comma 1, del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 del testo previgente nell’attuale lett. d) del testo dell’articolo 143, comma 1, come novellato dall’articolo 2, comma 6, lett. p) del D. lgs. 26 marzo 2008, n. 63, in cui è previsto che il PPR comprenda la “d) eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini dell'articolo 134, comma 1, lettera c), loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d'uso, a termini dell'articolo 138, comma 1.” Di talché le zone umide regionali individuate dal PPR, e sottoposte a tutela ai sensi degli articoli 17 e 18 delle NTA del PPR, fanno parte dei beni indicati dall’articolo 143, comma 1, lett. d) del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come integrato dal D. lgs. 26 marzo 2008, n. 63, per i quali vige l’obbligo di pianificazione congiunta stabilito ai sensi dell’art. 135, comma 1, ultimo periodo del D. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, secondo il quale “L'elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all'articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143.” Inoltre, intervenendo unilateralmente con legge regionale nelle modifiche del PPR, la Regione contravviene ai protocolli d’intesa e ai relativi disciplinari sottoscritti tra la Regione Sardegna e lo scrivente Ministero (art. 3 prot. int. del 19 febbraio 2007), al principio di leale collaborazione, ed all’articolo 143, comma 2, del D. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Sul punto, si osserva che la giurisprudenza costituzionale, si è espressa affermando che "integra una regola di tutela primaria del paesaggio in nessun modo derogabile ad opera della legislazione regionale che, nella cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali, deve rispettare gli standard minimi uniformi di tutela previsti dalla normativa statale, potendo al limite introdurre un surplus di tutela e non un regime peggiorativo" (sentenza n. 251 del 2021, punto 3). La norma regionale, quindi, si pone in contrasto con l’articolo 117 lett. s) Cost., per quel che riguarda le procedure di co-pianificazione del Piano Paesaggistico regionale di cui all’articolo 135 D. Lgs 42/2004, nonché con il principio di leale collaborazione Stato-Regione, di cui all’articolo 5 Cost. L’articolo 28 modifica la legge regionale n. 8 del 2016 rubricata “Legge forestale della Sardegna”. La disposizione risulta affetta da incostituzionalità in relazione all'art. 7 del R.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, quale norma interposta dell'art. 117, comma secondo, lett. s) Cost., e dell'art. 3 dello Statuto speciale per la Sardegna, di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. La materia disciplinata dal R.d.l. n. 3267 del 1923, relativa al «vincolo per scopi idrogeologici” e ai terreni di qualsiasi natura e destinazione» (art. 1 R.d.l. n. 3267/1923) ricade nell'ambito delle competenze legislative esclusive statali in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di cui all'art. 117, comma secondo, lett. s). della Costituzione. Ciò si evince chiaramente da una lettura sistematica delle disposizioni in materia: l'art. 53, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che apre la sezione I della parte terza, recante «Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione», individua tra le finalità delle disposizioni della suddetta sezione «[...] il risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio e la lotta alla desertificazione». Tale orientamento è condiviso dalla giurisprudenza amministrativa in base alla quale «[il vincolo idrogeologico, secondo quanto previsto dall'art. 1 r.d.l. 30 dicembre 1923 n. 3267, riguarda direttamente e specificamente i terreni [...] ed ha come finalità quella di prevenire smottamenti e movimenti franosi» e «consente alla p.a. di adottare qualsiasi misura - tanto restrittiva, quanto impeditiva - per ragioni di tutela ambientale» (Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2009, n. 5424). A tal proposito, è pacifico che le competenze statali di cui all'art. 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione costituiscono limite all'esercizio delle competenze legislative regionali previste dagli artt. 3, 4 e 5 dello Statuto speciale della Sardegna (Cfr. sul punto Corte cost. 28 gennaio 2022, n. 24; Id., 6 luglio 2021, n. 138). L’articolo 7 del R.d.l. n. 3267 del 1923 prevede che “per i terreni vincolati, la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione dei terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione, sono subordinate ad autorizzazione [...], caso per caso, allo scopo di prevenire i danni di cui all’art. 1. La giurisprudenza qualifica pacificamente tale atto, come un titolo ampliativo (“autorizzazione” TAR Puglia, Lecce, sez. 1, 12 dicembre 2016, n. 1850; oppure “nulla osta”: Cons. Stato, V, n. 5424/2009) da conseguire necessariamente prima della realizzazione dell’intervento. In particolare, il giudice amministrativo ha espressamente statuito che “il r.d. n. 3267 del 1923, recante Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani, non prevede il rilascio di parere e/o nulla osta a sanatoria, ma solo l’autorizzazione preventiva” (TAR Puglia, Bari, sez. III, 26 gennaio 2012, n. 246). L’articolo 28, dunque, viola i principi e le disposizioni sopra citati, con particolare riferimento all’art. 7 del R.d.l. n. 3627 del 1923, nella misura in cui prevede che gli interventi e le trasformazioni realizzati in zone sottoposte a vincolo idrogeologico ai sensi del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, possano ottenere l’accertamento della compatibilità idrogeologica anche successivamente alla realizzazione delle opere, risultando affetta da incostituzionalità in relazione all'art. 7 del R.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, quale norma interposta dell'art. 117, comma secondo, lett. s) Cost., e dell'art. 3 dello Statuto speciale per la Sardegna, di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. L’art. 29, comma 1, lett. c), inserisce un nuovo articolo 5ter nella legge regionale n. 12 del 1998, che attribuisce all’organo comunale le competenze in materia di provvedimenti di accertamenti di compatibilità paesaggistica e di relativi provvedimenti sanzionatori di cui all’articolo 167 del D. Lgs.42/2004. Quanto previsto ai commi 4 e 5 del nuovo art.5-ter contrasta con la sovraordinata norma statale di cui all’art.167 del D. Lgs.42/2004, ove non si prevedono le esclusioni di applicazione delle sanzioni rispettivamente per opere pubbliche eseguite in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica e per i casi di opere eseguite prima dell’apposizione del vincolo paesaggistico. Si tratta di previsioni lesive delle prerogative esclusive dello Stato in materia di tutela del paesaggio e della conseguente potestà sanzionatoria prevista in materia, esula infatti dalle competenze della Regione la possibilità di escludere con legge regionale una sanzione relativa ad un ambito di competenza esclusiva dello Stato. Si evidenzia quindi la violazione della competenza primaria statale in materia di ambiente, ecosistema e paesaggio, derivante dall’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione, nonché dall’art. 9 della Costituzione L’art. 29, comma 1, lett d), sostituisce integralmente l’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 1998 prevedendo, nel novellato comma 12 di detto articolo 9 che: “12. Gli strumenti urbanistici previsti dall'articolo 21 della legge regionale n. 45 del 1989 sono sottoposti all’approvazione paesaggistica del Servizio tutela del paesaggio regionale competente per territorio. Il piano adottato, completo della deliberazione del Consiglio comunale di adozione e dei relativi allegati, è inviato dall'amministrazione comunale al Servizio tutela del paesaggio regionale che esprime le proprie osservazioni entro sessanta giorni dalla ricezione. Il piano approvato, completo della deliberazione del Consiglio comunale di approvazione definitiva e dei relativi allegati, è trasmesso per il provvedimento finale di autorizzazione paesaggistica al Servizio tutela del paesaggio regionale competente per territorio che si esprime entro sessanta giorni dalla ricezione. Il provvedimento di approvazione paesaggistica è il presupposto per l'entrata in vigore del piano, previa pubblicazione sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS).” La norma regionale detta una procedura per l’autorizzazione paesaggistica di piani particolareggiati, quali quelli previsti dal citato articolo 21 L.R. 45/1989 che, tuttavia, non contempla il preventivo parere della Soprintendenza competente, come sancito dall’articolo 16 L. 1150/1942. Il nuovo articolo tratteggia, quindi, un procedimento totalmente autonomo nel quale non trova spazio la partecipazione degli organi ministeriali ed il provvedimento di autorizzazione paesaggistica interverrebbe dopo un iter condotto in totale autonomia dagli uffici regionali. La citata norma stabilisce al comma 3 dell’art. 16 che: “I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 1° giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione quando sono approvati con decreto del ministro per i lavori pubblici”. L’articolo 16, comma 3 della L.1150/1942 e l’articolo 146 del D. Lgs.42/2004 individuano, come oggetto dei due pareri contemplati dalla richiamata normativa, aspetti differenti del governo del territorio, poiché, mentre il parere reso ai sensi dell’art. 16 legge n. 1150/1942 ha ad oggetto i piani particolareggiati, quello di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 concerne, invece, il progetto degli interventi che si intendano intraprendere. In particolare, quanto al secondo dei due pareri, l’articolo 146, comma 3, d.lgs. n. 42/2004, prevede la verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, correlando a tale finalità il contenuto della documentazione che l’interessato è tenuto a presentare. Per l’amministrazione preposta alla salvaguardia e alla valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio, la possibilità di esprimersi, su quelli che sono gli aspetti più direttamente collegati all’intervento che si effettuerà in attuazione del piano particolareggiato e, dunque, relativamente a quelli che sono i profili d’incidenza più marcatamente edilizi delle opere a farsi, diviene possibile soltanto con la presentazione dei progetti relativi ai singoli interventi, che danno conto, nel dettaglio, degli aspetti costruttivi delle opere (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 17 agosto 2021 n. 5905; sez. VI, 15 marzo 2010, n. 1491; sez.VI, 5 febbraio 2010, n. 538). Al contrario, in base al disposto di cui all’articolo 16, comma 3, legge n.1150/1942, i piani particolareggiati sono soggetti ad una valutazione riguardante l’incidenza della pianificazione sugli aspetti culturali o paesaggistici del territorio, divenendo pertanto oggetto del giudizio della Soprintendenza l’eventuale incidenza di carattere “urbanistico” dei piani scrutinati. La Regione Sardegna grazie alla modifica legislativa de qua non sottopone al parere della competente Amministrazione statale i piani urbanistici attuativi, qualora questi atti di pianificazione incidano su immobili tutelati ai sensi della Parte Seconda e Terza del D. Lgs. n. 42/2004, ledendo in tal modo direttamente le funzioni di tutela del patrimonio culturale di competenza statale, il principio di ripartizione delle competenze legislative previste dall'articolo 3 dello Statuto Sardo, e dall'articolo 117, comma 2, lett. s) della Costituzione, nonché il principio di leale collaborazione. La competente amministrazione statale preposta alla tutela non viene messa nelle condizioni di poter espletare le sue funzioni di tutela del patrimonio culturale poiché vengono rimesse solo le istanze singole di autorizzazione paesaggistica ex articolo 146 del Codice, secondo una visione parcellizzata caso per caso della tutela, laddove viceversa l'esercizio di tale funzione richiede la percezione e la conoscenza dell'insieme degli interventi suscettibili di modificare le aree tutelate, nonché la possibilità di esprimere un giudizio sull'insieme delle opere concernenti lo strumento attuativo in area vincolata. Sul punto, per quanto non si ritenga vincolante il parere della Soprintendenza reso ex articolo 16, comma 3, della L.1150/1942, si tratta comunque di un parere obbligatorio, previsto dalla sovraordinata legge statale, ove si fissano principi fondamentali di grande riforma economico sociale, al cui rispetto è pure tenuta la Regione autonoma di Sardegna. La Soprintendenza deve quindi esprimere prima il proprio parere sul piano particolareggiato e poi essere chiamata a valutare il singolo intervento ai sensi dell’art.146 con parere vincolante ed obbligatorio. Detto parere si distingue dall’autorizzazione paesaggistica prescritta all’art. 146 del d.lgs 42/20004 che è riferita ai singoli interventi sui beni tutelati. Infatti, il disegno tratteggiato dal legislatore statale è volto alla massima tutela dei valori paesaggistici coinvolti in un programma di interventi edilizi da realizzare nelle zone vincolante. Tale intento è realizzato sia mediante la previsione di un parere a monte, da parte della soprintendenza, circa la generale compatibilità paesaggistica dei piani, sia tramite l’imposizione di un ulteriore parere della medesima soprintendenza in relazione ai singoli interventi a valle (Cfr Corte Cost. 68/2018). La disposizione regionale in argomento lede la competenza primaria statale in materia di ambiente, ecosistema e paesaggio, derivante dall’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione, dall’art. 9 della Costituzione che stabilisce la preminenza del principio della tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale e stabilisce livelli minimi di tutela, e dagli articoli 16 e 28 della L. Urbanistica n. 1150/1942, norma interposta da ritenersi di riforma economica e sociale, prevalente rispetto alla legislazione regionale, e dunque applicabile anche al territorio sardo, in ragione dell’art. 3 dello Statuto sardo L.Cost. n. 3/1948 a norma del quale la funzione legislativa regionale si esercita “In armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico dello Stato e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”. Per i motivi sopra illustrati, la legge regionale, limitatamente alle disposizioni contenute negli articoli 2, 4, 6, 7, 12, 14, 15, 18, 19, 27, comma 1, lettera a), 27, comma 2 e 28, 29, comma 1, lettere c) e d) d), deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione. |