Dettaglio Legge Regionale

Dettaglio legge regionale
Titolo Legge annuale di riordino dell'ordinamento regionale. Anno 2025
Regione Piemonte
Estremi Legge n. 9 del 08-07-2025
Bur n. 9 del 10-07-2025
Settore Politiche ordinamentali e statuti
Delibera C.d.M. 04-09-2025 / Impugnata


Con la legge di riordino dell’ordinamento regionale per l’anno 2025 la Regione Piemonte interviene a modificare disposizioni relative a diversi ambiti.
In particolare, al Capo IV figurano “disposizioni in materia di territorio e ambiente”, alcune delle quali eccedono le competenze legislative regionali e risultano, pertanto, costituzionalmente illegittime. Si tratta, nello specifico:
- dell’articolo 34, comma 2, rubricato “Applicazione del deflusso ecologico”, che si pone in contrasto l’art. 117, primo comma, nonché secondo comma, lettera s), della Costituzione, nella parte in cui assegna allo Stato competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, nella quale rientra la garanzia del livello di deflusso ecologico e in generale l’equilibrio del bilancio idrico;
- dell’articolo 50, rubricato “Modifiche all’allegato A della legge regionale 19/2009”, che si pone in contrasto con l’articolo 9 e con l’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nella parte in cui assegna allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dei beni culturali.


In primo luogo, viene in rilievo l’articolo 34 della legge regionale n. 9 del 2025, che dispone, al comma 1, la “proroga” al 31.12.2026, su tutto il territorio regionale, dell’applicazione del deflusso ecologico, fatte salve le sperimentazioni in corso. In sintesi, con tale comma 1, si rimanda al 31 dicembre 2026 il momento dell’applicazione della regolazione del deflusso ecologico, quest’ultimo funzionale a garantire adeguati livelli di conservazione del bene acqua in conformità alla disciplina contenuta nella direttiva quadro sulle acque (2000/60/CE). La disposizione regionale tiene conto del medesimo termine stabilito (31 dicembre 2026) ai sensi dell’articolo 21-bis, comma 1-bis, del decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 2022, n. 51.
Il medesimo articolo prevede, poi, al comma 2, una specifica modalità di calcolo (dinamico) del deflusso ecologico stabilendo, tra l’altro, che il deflusso stesso non debba eccedere il 30 per cento della portata effettiva dei corsi d’acqua.
La modalità di calcolo del deflusso ecologico introdotta dal comma 2 dell’articolo 34 si pone in contrasto con un complesso quanto consolidato quadro giuridico nel quale la regolazione del deflusso minimo vitale (DMV) e del deflusso ecologico (DE), definita nel Piano di gestione delle acque del distretto idrografico vigente e nel Piano di tutela delle acque, in conformità con le previsioni contenute nell’art. 4 della Direttiva 2000/60/CE (Direttiva Quadro Acque – DQA), recepita a livello nazionale dal decreto legislativo n. 152 del 2006, recante “Norme in materia ambientale”, ricade nell’ambito delle competenze legislative esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, potendo le competenze regionali essere esercitate, in particolare in materia di tutela delle acque, soltanto qualora perseguano standard migliorativi rispetto a quelli risultanti dalla tutela fornita dalla legislazione statale.
La limitazione del deflusso ecologico ad una quota «non […] eccedente il 30 per cento della portata effettiva medesima» fissata dal comma 2 (“2. Nei corsi d’acqua a carattere torrentizio, canali o porzioni di essi non classificati come fiumi dalla Regione e nei corsi d’acqua classificati come fiumi o tratti di essi caratterizzati da ricorrenti deficit idrici stagionali, tenuto conto della regimazione non costante del flusso delle acque, il deflusso ecologico è calcolato in modo dinamico in base alla portata presente nella sezione di derivazione e non può essere eccedente il 30 per cento della portata effettiva medesima.”), introduce limiti e conseguentemente obiettivi di qualità meno elevati rispetto a quelli stabiliti dalla legislazione nazionale e dai provvedimenti settoriali di area vasta.
Ciò determina un contrasto con le previsione di cui agli articoli 95, commi 4 e 6, e 144, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, nonché con l’articolo 12-bis del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, recante “Approvazione del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e sugli impianti elettrici”, come sostituito dall’articolo 96, comma 3, del decreto legislativo n. 152 del 2006, e infine con le disposizioni degli articoli 76, comma 4, e 121, comma 4, del citato decreto legislativo n. 152 del 2006; disposizioni che costituiscono normativa interposta al parametro costituzionale di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nei termini e per le ragioni di seguito esposte.
La materia disciplinata concerne, si ribadisce, la regolazione del deflusso minimo vitale (DMV) e del deflusso ecologico (DE), che è definita nel Piano di gestione delle acque del distretto idrografico vigente, nonché nel Piano di tutela delle acque in conformità con le previsioni contenute nell’articolo 4 della Direttiva 2000/60/CE (Direttiva Quadro Acque – DQA), recepita a livello nazionale dal citato decreto legislativo n. 152 del 2006. Pertanto, essa ricade pacificamente nell’ambito delle competenze legislative esclusive statali in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
Per un verso, il citato articolo 95 del decreto legislativo n. 152 del 2006 reca la disciplina delle aree di salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, definendo, in particolare, la zona di rispetto, circostante la zona di tutela assoluta, nella quale sono vietati l’insediamento di centri di pericolo e lo svolgimento di attività puntualmente individuate (comma 4). Tale articolo dispone, altresì, che, qualora la regione non provveda a definire l’anzidetta zona di rispetto, la medesima sia stabilita in 200 metri di raggio rispetto al punto di captazione e di derivazione (comma 6).
Per altro verso, l’articolo 144, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sopra richiamato, stabilisce che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengano al demanio dello Stato.
Quanto all’articolo 12-bis del regio decreto n. 1775 del 1933, esso definisce i requisiti per il rilascio delle concessioni e utilizzazioni per la raccolta, regolazione, estrazione, derivazione, condotta, uso, restituzione e scolo delle acque, stabilendo che il provvedimento è rilasciato se: “a) non pregiudica il mantenimento o il raggiungimento degli obiettivi di qualità definiti per il corso d’acqua interessato; b) è garantito il minimo deflusso vitale e l’equilibrio del bilancio idrico; non sussistono possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane ovvero, pur sussistendo tali possibilità, il riutilizzo non risulta sostenibile sotto il profilo economico”. I commi successivi stabiliscono, poi, che “i volumi d’acqua concessi sono commisurati alle possibilità di risparmio, riutilizzo o riciclo delle risorse. Il disciplinare di concessione deve fissare, ove tecnicamente possibile, la quantità e le caratteristiche qualitative dell’acqua restituita. Analogamente, nei casi di prelievo da falda deve essere garantito l’equilibrio tra il prelievo e la capacità di ricarica dell’acquifero, anche al fine di evitare pericoli di intrusione di acque salate o inquinate, e quant’altro sia utile in funzione del controllo del miglior regime delle acque”. Infine, l’utilizzo di risorse prelevate da sorgenti o falde, o comunque riservate al consumo umano, può essere assentito per usi diversi da quello potabile se: “a) viene garantita la condizione di equilibrio del bilancio idrico per ogni singolo fabbisogno; b) non sussistono possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane, oppure, dove sussistano tali possibilità, il riutilizzo non risulta sostenibile sotto il profilo economico; c) sussiste adeguata disponibilità delle risorse predette e vi è una accertata carenza qualitativa e quantitativa di fonti alternative di approvvigionamento”.
Ulteriormente, si evidenzia che il medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, dopo aver specificato, all’articolo 75, che “Nelle materie disciplinate dalle disposizioni della presente sezione […] lo Stato esercita le competenze ad esso spettanti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema attraverso il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, fatte salve le competenze in materia igienico-sanitaria spettanti al Ministro della salute», dispone, all’articolo 76, quanto segue: «1. Al fine della tutela e del risanamento delle acque superficiali e sotterranee, la parte terza del presente decreto individua gli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici significativi e gli obiettivi di qualità per specifica destinazione per i corpi idrici di cui all’articolo 78, da garantirsi su tutto il territorio nazionale. 2. L’obiettivo di qualità ambientale è definito in funzione della capacità dei corpi idrici di mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate. 3. L’obiettivo di qualità per specifica destinazione individua lo stato dei corpi idrici idoneo ad una particolare utilizzazione da parte dell’uomo, alla vita dei pesci e dei molluschi». Ai sensi del comma 7 del citato articolo 76, infine, «le regioni possono definire obiettivi di qualità ambientale più elevati, nonché individuare ulteriori destinazioni dei corpi idrici e relativi obiettivi di qualità”.
Con riferimento al contrasto con gli articoli 76, comma 4, e 121, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 2006, si ricorda che questi dispongono quanto segue.
In attuazione della parte terza del decreto legislativo citato sono adottate, mediante il Piano di tutela delle acque di cui all’articolo 121, misure atte a conseguire entro il 22 dicembre 2015 gli obiettivi seguenti:
a) sia mantenuto o raggiunto per i corpi idrici significativi superficiali e sotterranei l’obiettivo di qualità ambientale corrispondente allo stato di «buono»;
b) sia mantenuto, ove già esistente, lo stato di qualità ambientale «elevato» come definito nell’Allegato 1 alla parte terza del decreto legislativo;
c) siano mantenuti o raggiunti altresì per i corpi idrici a specifica destinazione di cui all’articolo 79 gli obiettivi di qualità per specifica destinazione di cui all’Allegato 2 alla parte terza del presente decreto, salvi i termini di adempimento previsti dalla normativa previgente (articolo 76, comma 4).
Il Piano di tutela delle acque costituisce uno specifico piano di settore ed è articolato secondo i contenuti elencati nell’articolo 121 del decreto legislativo, nonché secondo le specifiche indicate nella parte B dell’Allegato 4 alla parte terza del medesimo provvedimento. Il Piano di tutela contiene, in particolare:
a) i risultati dell’attività conoscitiva;
b) l’individuazione degli obiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione;
c) l’elenco dei corpi idrici a specifica destinazione e delle aree richiedenti specifiche misure di prevenzione dall’inquinamento e di risanamento;
d) le misure di tutela qualitative e quantitative tra loro integrate e coordinate per bacino idrografico;
e) l’indicazione della cadenza temporale degli interventi e delle relative priorità;
f) il programma di verifica dell’efficacia degli interventi previsti;
g) gli interventi di bonifica dei corpi idrici.

Orbene, la riduzione della quota calcolata per garantire il deflusso ecologico prevista dall’articolo 34 della legge regionale in esame consente un aumento dei prelievi sul singolo corso d’acqua, sennonché tale valutazione – del tutto priva di idonei parametri tecnico-scientifici – non afferisce alla competenza regionale, poiché la sede deputata a compiere tale ponderazione secondo un riparto delle competenze costituzionalmente corretto è quella pianificatoria, come stabilito dagli articoli 76, comma 4, e 121, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 2006 in relazione al Piano di tutela delle acque, e dall’articolo 95 con riferimento al Piano di bilancio idrico.
Infatti, in punto di riconduzione competenziale costituzionale delle disposizioni statali menzionate, è sufficiente richiamare la pronuncia della Corte costituzionale n. 229 del 2017, a tenore della quale, “Secondo la giurisprudenza costituzionale, le disposizioni in materia di tutela delle acque contenute principalmente nella parte III del d.lgs. n. 152 del 2006, intitolata «Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche» e, in particolare, nella sua sezione II intitolata «Tutela delle acque dall’inquinamento» sono riconducibili alla materia della «tutela dell’ambiente», attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Si tratta, infatti, «di disposizioni aventi finalità di prevenzione e riduzione dell’inquinamento, risanamento dei corpi idrici inquinati, miglioramento dello stato delle acque, perseguimento di usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, mantenimento della capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici e della capacità di sostenere comunità animali e vegetali ampie e diversificate, mitigazione degli effetti delle inondazioni e della siccità, protezione e miglioramento dello stato degli ecosistemi acquatici, degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico. Sono scopi che attengono direttamente alla tutela delle condizioni intrinseche dei corpi idrici e che mirano a garantire determinati livelli qualitativi e quantitativi delle acque» (sentenza n. 254 del 2009; in senso analogo, sentenza n. 246 del 2009)”.
Con più specifico riferimento al Piano regionale di tutela delle acque, la stessa Corte costituzionale, con la successiva sentenza n. 153 del 2019, ha assunto chiare affermazioni, innanzitutto tracciando “una sintetica descrizione del quadro normativo di riferimento. L’art. 121 del d.lgs. n. 152 del 2006 disciplina il piano regionale di tutela delle acque, il quale si aggiunge al piano di bacino distrettuale (art. 65) e al piano di gestione (art. 117). Il piano delle acque è approvato all’esito di un complesso procedimento, articolato nelle seguenti fasi: «le Autorità di bacino, nel contesto delle attività di pianificazione o mediante appositi atti di indirizzo e coordinamento, sentiti le province e gli enti di governo dell’ambito, definiscono gli obiettivi su scala di distretto cui devono attenersi i piani di tutela delle acque, nonché le priorità degli interventi»; «le regioni, sentite le province e previa adozione delle eventuali misure di salvaguardia, adottano il Piano di tutela delle acque e lo trasmettono al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nonché alle competenti Autorità di bacino, per le verifiche di competenza» (comma 2); «le Autorità di bacino verificano la conformità del piano agli atti di pianificazione o agli atti di indirizzo e coordinamento di cui al comma 2, esprimendo parere vincolante»; le Regioni approvano il Piano di tutela «entro i successivi sei mesi» (comma 5).”. Ciò precisato, la Corte costituzionale ha puntualizzato che “Questa procedura, che vede l’intervento delle regioni sia nella fase dell’adozione del piano sia in quella della sua approvazione definitiva, è interamente disciplinata nel codice dell’ambiente, sull’assunto della sua inerenza alla competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente». Questo assunto non è stato smentito dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ricondotto a tale materia la normativa sulle acque, in quanto preordinata segnatamente alla loro tutela (in questo senso, sentenze n. 229 del 2017 e n. 86 del 2014), osservando in particolare che «[i]l riparto delle competenze […] dipende proprio dalla […] distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione» (sentenza n. 1 del 2010)”. La Corte ha, quindi, concluso ricordando che, “Con specifico riferimento al piano di tutela delle acque, questa Corte ha affermato che esso costituisce uno «strumento fondamentale di programmazione, attuazione e controllo […] per l’individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici», la cui disciplina rientra nella competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente» (sentenza n. 44 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 254, n. 251, n. 246 e n. 232 del 2009)”.
In questo quadro, “Le regioni possono adottare le prescrizioni del piano di tutela delle acque che ritengono opportune alla luce degli obiettivi indicati dalle autorità di bacino e sempre nel rispetto del quadro normativo definito dagli artt. 95, 96 e 121 del d.lgs. n. 152 del 2006. Inoltre, le regioni possono anche decidere di prevedere o no eventuali misure di salvaguardia. Ciò che è, invece, precluso alle regioni è di intervenire con legge per escludere o circoscrivere l’ambito di operatività del piano stesso, giacché ciò comporterebbe l’elusione – totale o parziale – del vincolo della legge statale, espressione della competenza esclusiva in materia di tutela delle acque, funzionale alla garanzia delle esigenze unitarie cui è preordinata la individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici” (Corte Cost. sent. n. 153 del 2019).

Alla luce di quanto sopra precisato, emerge con ogni evidenza che, con il suddetto intervento normativo, la Regione Piemonte viola il riparto di competenze in materia di tutela delle acque, poiché interviene sull’ambito di operatività degli strumenti di tutela dell’idrosfera fissati dallo Stato nell’esercizio delle competenze legislative esclusive in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nella quale rientrano la garanzia del livello di deflusso ecologico e, in generale, le misure poste a presidio dell’equilibrio del bilancio idrico. Alla legislazione regionale e provinciale è consentito unicamente, invece, nell’esercizio di una diversa competenza, incrementare i livelli di tutela fissati dal legislatore statale.
Come chiarito dalla Corte costituzionale, “la garanzia del minimo deflusso vitale del corpo idrico, in quanto volta ad evitare l’esaurimento della fonte, deve ritenersi concernere la “conservazione” del bene acqua e non il mero utilizzo della stessa, con la conseguenza che la relativa disciplina deve considerarsi attratta nella competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., relativa alla tutela dell’ambiente. Sul punto va richiamata la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 1 del 2010), secondo cui il riparto delle competenze tra Stato e Regioni in materia di acque dipende dalla distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione. Si tratta di un evidente concorso di competenze sullo stesso bene (le acque minerali e termali), competenze che riguardano, per quanto attiene alle Regioni, l’utilizzazione del bene e, per quanto attiene allo Stato, la tutela o conservazione del bene stesso (sentenze n. 225 del 2009 e n. 105 del 2008)» (Corte Cost. sent. n. 28 del 2013).
Per quanto detto, emerge anche come la disposizione in commento si ponga in contrasto, oltre che con il principio di non deterioramento dei corpi idrici superficiali, nonché, in questi termini, con il prevalente interesse pubblico nella gestione della risorsa pubblica, con l’articolo 4 della Direttiva 2000/60/CE e, dunque, con il parametro costituzionale di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione.


In secondo luogo, merita censura l’articolo 50 della legge regionale di interesse, recante “Modifiche all’allegato A della legge regionale 19/2009”, a norma del quale:
“1. Il n. 26 dell’allegato A (Cartografie delle aree naturali protette regionali, delle aree contigue e delle zone naturali di salvaguardia) della legge regionale 19/2009 è sostituito dal seguente:
"26) PARCO NATURALE DEL MONTE FENERA - SCALA 1:25.000" (allegato 1)
2. Il n. 90 dell’allegato A della legge regionale 19/2009 è sostituito dal seguente:
"90) AREE NATURALI PROTETTE E AREA CONTIGUA DELLA FASCIA FLUVIALE DEL PO - TORINO OVEST - SCALA 1:25.000: - Area contigua della Fascia fluviale del Po piemontese" (allegato 2)”.
Dalle cartografie allegate alla legge e di esse parte integrante emerge una riduzione dei perimetri delle aree tutelate ivi individuate.
Al riguardo, occorre evidenziare che si tratta di beni che, in quanto soggetti a tutela ambientale speciale, sono anche “di interesse paesaggistico” ai sensi delle disposizioni degli articoli 134, comma 1, lettera c), e 142, comma 1, lettera f), del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. Essendo vigente il Piano Paesaggistico regionale della Regione Piemonte, per eventuali revisioni dei suddetti perimetri e dei Piani di Parchi ed aree naturali protette, per gli effetti della tutela paesaggistica, la legge statale richiede l’obbligatorio coinvolgimento del Ministero della cultura, secondo quanto stabilito dagli articoli 135, comma 1, e 143, comma 2, del citato Codice.

Tale assetto normativo risulta pienamente coerente con la logica incrementale dei beni paesaggistici che caratterizza il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel quale non è prevista una disciplina per la revisione o eliminazione dei beni paesaggistici. Al riguardo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 164 del 2021, con la quale ha rigettato il conflitto di attribuzione proposto dalla Regione del Veneto e dichiarato che spetta allo Stato adottare il decreto di dichiarazione di notevole interesse pubblico di un’area ricadente nel territorio regionale, ha rappresentato che “Il legislatore ordinario si è perciò ispirato in tale materia (la tutela paesaggistica) ad una logica incrementale delle tutele che è del tutto conforme al carattere primario del bene ambientale, cui peraltro si riferisce, collocato fra i principi fondamentali della Repubblica, l’art. 9 Cost. (sentenze n. 367 del 2007, n. 183 del 2006, n. 641 del 1987 e n. 151 del 1986). Tale logica, dal lato della Regione, opera sul piano procedimentale per addizione, e mai per sottrazione, nel senso che la competenza regionale può essere spesa al solo fine di arricchire il catalogo dei beni paesaggistici, in virtù della conoscenza che ne abbia l’autorità più vicina al territorio ove essi sorgono, e non già di alleggerirlo in forza di considerazioni confliggenti con quelle assunte dallo Stato, o comunque mosse dalla volontà di affermare la prevalenza di interessi opposti, facenti capo all’autonomia regionale, come accade nel settore del governo del territorio. Per questa ragione, è conforme al riparto costituzionale delle competenze che il piano paesaggistico regionale – ove non sia la sede di diversi apprezzamenti legati anche alla dimensione urbanistica del territorio – è tenuto a recepire le scelte di tutela paesaggistica, senza capacità di alterarle neppur sul piano delle prescrizioni d’uso. Altrimenti, esso potrebbe divenire l’occasione per ridurre lo standard di tutela dell’ambiente in forza di interessi divergenti, anziché la sede deputata a collocare armonicamente siffatti interessi sub valenti nella cornice già intagliata secondo la preminente prospettiva della conservazione del paesaggio. L’occasione, vale a dire, per degradare «la tutela paesaggistica – che è prevalente – in una tutela meramente urbanistica» (sentenza n. 437 del 2008)”.

Considerato quanto premesso, occorre osservare come l’obbligo di copianificazione con il Ministero, già previsto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio all’art. 143, comma 2, del citato Codice, in particolare nell’ipotesi di una deperimetrazione, deriva dal Piano Paesaggistico Regionale (PPR) e da quanto disposto dagli articoli 3 e 18 delle Norme di Attuazione del Piano vigente (NTA).
In particolare, l’articolo 3 delle NTA (“Ruolo del Ppr e rapporti con i piani e i programmi territoriali”) dispone che:
“2. Le previsioni del Ppr, quadro di riferimento per la tutela e la valorizzazione del paesaggio regionale, costituiscono misure di coordinamento e riferimento per tutti gli strumenti di pianificazione territoriale, urbanistica e di settore, ad ogni livello.
3. Il Ppr, per quanto attiene alla tutela del paesaggio, contiene altresì previsioni cogenti e immediatamente prevalenti per tutti gli strumenti generali e settoriali di governo del territorio alle diverse scale, compresi i piani d’area delle aree protette, che prevalgono sulle disposizioni eventualmente incompatibili, fatte salve le disposizioni normative e le previsioni dei piani finalizzate a garantire la riduzione del rischio idrogeologico dei luoghi e la sicurezza delle persone.
[…]
5. Il Ppr riconosce, in quanto coerenti con le previsioni di tutela paesaggistica delle presenti norme, i contenuti dei piani paesistici o territoriali a valenza paesaggistica regionali, di cui al seguente elenco, approvati secondo la previgente normativa di settore:
- Ptr - Area di approfondimento Ovest-Ticino, approvato con DCR n. 417- 11196 del 23 luglio 1997;
- Piano paesistico di una parte del territorio del Comune di Pragelato, approvato con DCR n. 614-7539 del 4 maggio 1993;
- Piano paesistico di una parte del territorio del Comune di San Maurizio D’Opaglio, approvato con DCR n. 220-2997 del 29 gennaio 2002;
- Piano paesistico della Zona di salvaguardia dell’Alpe Devero, approvato con DCR n. 618- 3421 del 24 febbraio 2000 e modificato con DCR n. 226-5745 del 19 febbraio 2002.
Tali strumenti sono sottoposti alla verifica di conformità al Ppr attuata congiuntamente tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, di seguito denominato Ministero, e la Regione entro dodici mesi dall’approvazione del Ppr, a seguito della quale si provvederà, se del caso, all’eventuale adeguamento e al riconoscimento del loro valore attuativo del Ppr.
[…]
9. Fino alla verifica o all’adeguamento al Ppr dei piani di cui ai commi 5, 6 e 7, si applicano le disposizioni in essi contenute, se non in contrasto con le prescrizioni del Ppr stesso”.

Al riguardo, occorre segnalare, altresì, la natura sottordinata del Piano del Parco rispetto al PPR, confermata anche da ormai risalente giurisprudenza costituzionale (si veda sent. n. 108 del 2008) e da ultimo confermata nella sentenza n. 276 del 2020, ove si afferma che “È decisivo, infine, che l’art. 25, comma 2, della legge quadro (legge 6 dicembre 1991, n. 394, recante “Legge quadro sulle aree protette) stabilisca che il piano del parco regionale «ha valore anche […] di piano urbanistico e sostituisce i piani […] urbanistici di qualsiasi livello», statuendo così espressamente che gli strumenti urbanistici «di qualsiasi livello» cedono il passo al piano del parco, con una norma che, come questa Corte ha recentemente chiarito, rappresenta «uno standard uniforme di tutela ambientale» (sentenza n. 134 del 2020). Può essere utile ricordare che un’analoga regola di prevalenza dei valori paesaggistici sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici è stabilita dagli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), con una previsione che può essere riferita anche ai parchi regionali, in quanto aree di interesse paesaggistico, tutelate per legge, in base all’art. 142, comma 1, lettera f), cod. beni culturali. Questa Corte, dichiarando costituzionalmente illegittima una disposizione legislativa regionale che aveva invertito il rapporto tra piano paesaggistico regionale e piano urbanistico comunale, facendo prevalere il secondo sul primo (sentenza n. 86 del 2019; nello stesso senso la sentenza n. 172 del 2018), ha affermato che «[i]l codice dei beni culturali e del paesaggio definisce dunque, con efficacia vincolante anche per le regioni, i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio – sia contenute in un atto di pianificazione, sia espresse in atti autorizzativi puntuali, come il permesso di costruire – secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale» (sentenza n. 11 del 2016”).
Sulla possibilità di incidere sul perimetro dei parchi regionali, sempre la citata sentenza n. 276 del 2020 ha chiarito che “la modifica del perimetro dei parchi regionali può avvenire sia con legge regionale, nel rispetto del procedimento regolato dall’art. 22 della legge n. 394 del 1991 - spettando poi al piano del parco di precisare la disciplina della nuova area tutelata -, sia in sede di adozione o modifica del piano del parco. Qualora la legislazione regionale incida sulle aree protette (siano esse nazionali o regionali), deve conformarsi ai principi fondamentali contenuti nella legge quadro n. 394 del 1991, la quale - ricondotta alla materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” - detta gli standard minimi uniformi di tutela, che le Regioni possono accompagnare con un surplus di tutela, ma non derogare in peius” (Precedenti citati: sentenze n. 134 del 2020, n. 43 del 2020, n. 290 del 2019, n. 180 del 2019, n. 121 del 2018, n. 74 del 2017 e n. 14 del 2012).
Venendo al citato articolo 18 delle NTA (“Aree naturali protette e altre aree di conservazione della biodiversità”), quest’ultimo dispone che:
“1. Il Ppr riconosce e individua alla Tavola P2 e nel Catalogo di cui all’articolo 4, comma 1, lettera c., i parchi e le riserve di cui all’articolo 142, comma 1, lettera f. del Codice, assoggettati alla disciplina in materia di autorizzazione paesaggistica, per i quali si applicano le presenti norme:
a. i parchi nazionali e regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi, quali le aree contigue;
b. le riserve nazionali e regionali.
Ai fini dell’individuazione dei territori soggetti all’autorizzazione paesaggistica di cui all’articolo 146 del Codice, in quanto compresi nelle aree di cui alle lettere a. e b., valgono i confini definiti dalla l.r. 19/2009 e smi. e dai provvedimenti istitutivi delle aree protette nazionali.”

Da quanto evidenziato, deriva che le modifiche dei confini del Parco Naturale del Monte Fenera, delle Aree naturali protette e dell’area contigua della fascia fluviale del Po-Torino ovest, apportate dalla Regione con propria legge – che si è limitata ad allegare, all’articolo 50 della legge regionale in oggetto, le due cartografie (Parco Naturale del Monte Fenera; Aree naturali protette e area contigua della fascia fluviale del Po-Torino ovest) – introducono una modifica unilaterale del perimetro delle aree soggette a tutela paesaggistica.
Per quanto la normativa statale distingua nettamente l’attività di classificazione e di istituzione dei parchi e delle riserve naturali di interesse regionale e locale dall’attività di elaborazione dei piani paesaggistici regionali (si veda la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 276 del 2020), nel caso di specie il PPR del Piemonte rinvia, quanto alla perimetrazione, alle disposizioni contenute nella legge regionale n. 19 del 2009. Di talché, con la modifica unilaterale della perimetrazione delle aree interessate apportata ora dall’articolo 50 della legge in oggetto, si determina automaticamente una variazione, in diminuzione, delle aree soggette a tutela paesaggistica, in violazione del principio di copianificazione di cui agli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tenuto conto di quanto rappresentato, l’articolo 50 della legge regionale del Piemonte n. 9 del 2025 si pone in contrasto con gli articoli 134, comma 1, lettera c), 135, comma 1, e 142, comma 1, lettera f), e 143, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, normativa interposta al così violato parametro costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.


Per i motivi esposti, della legge regionale del Piemonte n. 9 del 2025 debbono essere impugnati:
- l’articolo 34, comma 2, siccome contrastante con le disposizioni degli articoli 95, commi 4 e 6, e 144, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, con l’articolo 12-bis del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, come sostituito dall’articolo 96, comma 3, decreto legislativo n. 152 del 2006, nonché con quelle degli articoli 76, comma 4, e 121, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituente normativa interposta al così violato parametro costituzionale di cui all’articolo 117, primo comma, nonché secondo comma, lettera s), della Costituzione;
- l’articolo 50 della legge regionale n. 9 del 2025, per contrasto con le disposizioni degli articoli 134, comma 1, lettera c), 135, comma 1, e 142, comma 1, lettera f), e 143, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, costituente normativa statale interposta ai così violati parametri costituzionali di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.